
Ultima sera, ultimo albergo, ultima pagina del pronostico da staccare: mancano solo 15 km alla fine di questo Giro e la truppa si è accampata disperdendosi per la strada che dal Tonale scende a Verona. C’è chi ha deciso di sostare a monte, chi – come me – direttamente all’arrivo.
Il mio hotel è a 400 metri circa dall’Arena, il simbolo di questa città, che come nel 1984 accoglierà uno a uno i girini proprio dentro le sue magiche mura. La lotta per la vittoria sembra già consolidata, ci sarà da divertirsi con i piazzamenti. Domani sarà una festa per tutti, ma i sorrisi saranno un po’ velati di malinconia. Mi sforzo di non pensarci ma so che questa fantastica avventura è ormai agonizzante. E’ stato un Giro folle, imprevedibile, bellissimo. Dicono il migliore degli ultimi 10 anni e ci può anche stare.
La discesa del Tonale è filata liscia e vellutata, è letteralmente scivolata sotto le ruote della Focus. Solo un po’ di coda per via di due semafori per lavori, il navigatore schiumava di rabbia quando abbiamo divorato il nuovo passante autostradale verso Modena che ancora non conosceva: “Esegui un’inversione di marcia, consentita”. Ho scaricato Vittorio, il mio compagno di viaggio delle ultime due frazioni, al suo hotel in periferia e ho acceso la radio prima di entrare a Verona.
Con la mia puledra argentata e un po’ raffreddata siamo sfrecciati sotto il cartello d’entrata in città ed erano le curve stesse che tornavano indietro lasciandoci il passaggio. La Focus ha abbassato i finestrini lasciandomi saggiare l’aria tiepida della città, greggi di ragazzi si esibivano in cori da stadio. Abbiamo sbagliato svincolo ed è stato meglio così perché spiaceva a tutti e due fermarsi di già.
All’hotel mi aspettava un portiere paradossale che non parlava bene italiano, il suo linguaggio incomprensibile era davvero curioso seppur anacronistico. Avrei voluto farmi una passeggiata per prendere confidenza con le strade che domani si inonderanno di gente, ma pativo la vigilia.
Per domani ho un proposito che probabilmente non raggiungerò: è da inizio Giro che vorrei veder Venere di giorno, c’è stata anche l’occultamento con la Luna, ma eravamo intrappolati tra il freddo lancinante e le nuvole nebbiose del Terminillo. Ho bucato l’appuntamento all’unica chance concessa a Porto Recanati, domani il meteo non promette nulla di buono.
Meglio così, preferisco lasciare qualcosa di incompiuto in ogni Giro, perché dimentica una porta aperta che prolunga la sua esistenza oltre le tre settimane.
Il Giro d’Italia è la quinta stagione dell’anno, la più breve e la meno legata a regole e fondamentali: può essere inverno o più facilmente estate, è geograficamente impalpabile.
E’ seguita da popoli migratori onnivori, profuma soltanto al mattino presto e alla sera quando la gente del Giro pensa a ciò ha appena vissuto e ciò che incontrerà, è un arcobaleno gastronomico. Soprattutto, è sport, quello vero e ogni volta che il tubetto delle tre settimane mi presenta il suo ultimo – trasparente – contenuto, sento gli obiettivi spuntare come funghi sotto la luna buona, dopo una pioggerella.
Voglia di chilometri e di bracciate, di pulsazioni che accelerano e di talloni spelati, di dita che scorrono su mappe sconosciute e di occhi rivolti alle nuvole scure dietro le montagne, voglia di qualche delusione come una nuova spinta verso l’alto, di countdown e di ricordi da inventare. Sono notti come queste che alimentano un anno intero, lacrime di velocità
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