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Questa sera si dorme a Longarone e si ha la stessa inquietante sensazione che era emersa nel 2010 a L’Aquila in Abruzzo: quella percezione di quotidianità non così ben definita, perché con sotto un qualcosa di impalpabile e poco evidente di primo acchito. A L’Aquila si arrivava in auto e ci si rendeva gradualmente conto di ciò che non andava – un palazzo pericolante, poi le macerie e i militari a presidiare la zona rossa disabitata – qui invece non c’è niente di strano, è tutto pulito e ordinato, è tutto nuovo. Già, nuovo, è proprio su questo concetto che gravitano tutti quei pensieri angoscianti: Longarone è una città recente, perché si è dovuto ricostruire completamente dopo che il disastro del Vajont l’ha disintegrata.
Si è parlato a lungo e forse anche troppo nei minimi dettagli del disastro, tanto che il presupposto lodevole della memoria (che non dev’essere spenta) si è fatto prendere il posto dal gusto del macabro. Non che si debba negare ciò che è avvenuto e l’immane tragedia, ma probabilmente era meglio concentrarsi sul ricordo vero e proprio di chi non c’è più, di come l’uomo manipola la natura senza pensare alle conseguenze e di come circa 2000 vite siano state spezzate in un modo che sembra impossibile da digerire, più adatto a un libro catastrofico di serie B che alla realtà.
Eppure è capitato e non si può certo tornare indietro. E così si può camminare per le vie di Longarone cercando di immaginare quella spaventosa notte di 50 anni fa. La diga si vede da più punti del paese ed è davvero terrificante: non so se per autosuggestione o se veramente per la sua struttura, ma ha qualcosa che agita lo stomaco. Quei 200 metri di cemento armato vomitato a far da barriera sono oggi una lama che non trattiene nulla se non l’eco del disastro. Camminando sul passaggio sopra la diga viene da non credere a come abbia potuto reggere lo spaventoso urto.
Il Giro rende omaggio alle vittime un po’ dimenticate del Vajont, lontane mezzo secolo dal presente e Longarone cerca di trasformarsi in una cittadina in festa, si addobba di rosa e fa uscire i bambini in piazza.
Sarebbe bello riuscire a pensare e a credere che sia solo un anonimo paesino di montagna perfettamente curato, con strade, palazzi, chiese, edifici, hotel tutti nuovi e moderni solo per scelta e non per necessità. Eppure non è facile: la montagna squarciata, con quella sua profonda cicatrice a M, non ha più saputo coprirsi di boschi, ci sono ancora detriti più che evidenti a valle e poi c’è il campanile di Pirago che non ha smesso di rimanere sull’attenti, da solo, quando tutto intorno era fango e silenzio. Oggi è ancora lì com’era quella sera ed è lui che dà il senso al disastro: è uno dei pochi ricordi ancora tangibili e visibili di ciò che era Longarone prima delle ore 22.39 del 9 ottobre 1963.
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