
Arriva sempre un giorno (o due) durante le tre settimane in cui mi devo allontanare dal Giro d’Italia – per motivi piacevolissimi – e questa distanza dalla corsa stimola sempre una strana sensazione perché è come tornare per qualche ora nella normalità e nella quotidianità.
Si esce da una dimensione che esiste nel momento stesso in cui viene a mancare, perché la si può osservare dall’esterno, percependola forse in modo più pieno. Il Giro è turbine e abisso: di chilometri, di volti, di paesi e di storie. La gara in sé è solo una piccola percentuale dell’avventura.
Il Giro d’Italia crea dipendenza all’istante, ma essendo droga così intensa e alienante dev’essere assunta in piccole dosi. Se durasse tre o quattro mesi credo non gli si sopravviverebbe alla seconda o terza edizione. E così arriva il giorno della lontananza, in cui non si stacca completamente la spina, ma ci si limita a guardare l’acquario da oltre le vetrate e non da dentro, in apnea.
Oggi invece che tagliare per il traguardo ho percorso una via alternativa, ho seguito e assaporato un’altra maglia rosa che – con tutto il rispetto per il buon Vinokourov – è decisamente più interessante. E’ un inseguimento tra benvenuti e addii, un gioco di compensazioni purtroppo senza una chimica da seguire.
Il Giro d’Italia è popolato da nostalgie, che nascono e si dissolvono non appena compare un nuovo obiettivo da raggiungere – velocissimi – e dal quale congedarsi senza possibilità di dimenticare: un panorama poi una voce, una curva e un sorriso, uno striscione divertente e una cascata di ricci, la nuvole che scivolano dalle montagne e il ricordo di un profumo.
C’è troppo da vivere e da assimilare al Giro d’Italia e non importa allontanarsi per un giorno o due, anzi al contrario la vertigine accelera senza freni.
Oltre ai tetti della città un vulcano finge di essere spento.
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